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Lentini tra mito, archeologia e storia
Tre incontri culturali (15, 22 e 29 gennaio, ma ne sono previsti altri), organizzati dall’Archeoclub di Lentini e tenuti dal Dott. Francesco Valenti, archeologo e docente master clil presso l’Università di Catania, hanno percorso la storia della nostra città dalle origini all’età romana, nelle sue tribolate vicissitudini, tra storia e leggenda, tra splendore e decadenza, tra grandezza e miseria.
Fondata, secondo il racconto di Tucidide, nel 729 a.C. da coloni calcidesi provenienti da Naxos e guidati dall’ecista Teocle sui colli San Mauro e Metapiccola, in una posizione strategica che permetteva il controllo sul territorio circostante, raggiunse presto una certa importanza: diventa grande e prospera, coltiva l’orzo, alleva i cavalli, fonda la colonia Euboia, erige mura imponenti, costruisce edifici, templi e acquedotti, domina incontrastata gli ampi e fertili Campi Leontini.
Il territorio di Lentini era già abitato quando giunsero i greci e i suoi antecedenti sono avvolti per di più nel mito. Dai ritrovamenti archeologici e dalle conseguenti ricostruzioni storiche si è pervenuti al convincimento che i primi abitatori dei Campi Leontini, già nell’età del Rame (2000 a.C.), furono prima i Sicani, discendenti dei Lestrigoni, di cui Omero parla nell’Odissea, e poi i Siculi, di origine peninsulare, che intorno all’XI sec. a.C. si trasferirono in Sicilia, scacciano i Sicani verso le parti meridionali e occidentali dell’isola e si insediano stabilmente nell’area orientale. La loro presenza nel nostro territorio è attestata dai resti del villaggio preistorico sul colle Metapiccola, molto simile a quelli di Lipari e del Colle Palatino a Roma.
I Siculi hanno un’economia florida, praticano la pesca, esercitano il commercio, fondano la mitica Xouthia, che diventa poi la greca Leontinoi, da quel leone ucciso da Ercole, di passaggio da queste parti negli anni del mito ed effigiato in monete del tempo. Sono queste le genti che i Calcidesi trovano sui colli San Mauro e Metapiccola.
Mantengono all’inizio rapporti amichevoli, continuano ad occupare la stessa zona, fino alla fine del VII sec. a.C., quando i Siculi scomparvero del tutto, perché cacciati dai nuovi arrivati o perché definitivamente assorbiti.
Leontìnoi, retta nei primi anni da un’oligarchia di cavalieri (ippeis), classe dominante, cade nel 698 a.C. sotto la tirannia di Panezio prima, e di Ippocrate di Gela dopo (494 a.C.). Sullo sfondo di tanta tragedia, le lotte interne tra aristocratici e democratici, tra nobili e servi. Stritolata tra nemici più potenti, oscilla tra alleanze fragili e momentanee, subisce la supremazia di Siracusa, signora incontrastata della Sicilia orientale, si appella all’appoggio di Atene, dove invia il sofista Gorgia (427 a.C.), esperto nell’arte della parola, a perorare la sua causa, a richiedere aiuto e protezione, ma la sua storia appare segnata. Gela, Agrigento, Cartagine, Pirro e soprattutto Siracusa decidono delle sue sorti.
Nel 214 a.C., nel corso della II guerra punica, che si combatte tra Roma e Cartagine, attaccata dal potente esercito del console Marcello, Leontìnoi soccombe definitivamente ed entra nell’orbita di Roma. Inquadrata in un primo momento tra le città decumane, sottoposte al pagamento della decima parte del raccolto, si trasforma poi in città censoria, il cui territorio viene dato in affitto a cittadini forestieri dietro pagamento di un canone. Entra così in un periodo di grande decadenza, scompare come città e la sua popolazione preferisce trasferirsi nella campagne circostanti. Cicerone (In Verren, II, 66), quindi, può ben dire che da “caput rei frumentariae” si era ridotta “in civitas misera atque inanis”.
Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli: Lentini, non più la greca Leontìnoi né la romana Leontini, condivide con tutta la Sicilia le sue travagliate sorti. L’aver annoverato tra i suoi figli Gorgia, filosofo e retore; il Notaro Jacopo, precursore della lingua italiana e inventore del sonetto; Riccardo, architetto alla corte di Federico II; il Conte Alaimo, protagonista della guerra del Vespro (1282-1302), attenua solo in parte la consapevolezza di un passato sofferto.
Cosa è rimasto di tanto passato?
La ricerca archeologica a Lentini si è svolta lungo l’arco temporale di più di un secolo, con un percorso lungo e discontinuo. Essa è stata possibile grazie all’attività congiunta della Soprintendenza di Siracusa, dell’Università di Catania, dell’appoggio degli enti locali e dell’impegno fattivo e intelligente di uomini di cultura del posto. Senza, infatti, il contributo pressante e appassionato di Filadelfo Castro, sindaco di Lentini tra il 1946 e il 1951, di Carlo Cicero, Giuseppe La Pira, Carlo Lo Presti, Federico Bugliarello e, soprattutto, di Alfio Sgalambro, tenace e instancabile sostenitore degli scavi, tutti componenti del Centro Studi Notaro Jacopo, a cavallo tra gli anni 40/50, e senza la loro illuminata opera di sensibilizzazione culturale, forse la ricerca archeologica, già avviata, si sarebbe arenata o non sarebbe proseguita con il ritmo e l’intensità di quegli anni.
Gli scavi erano iniziati, in effetti, alla fine dell’ottocento, con Paolo Orsi, sulla base della lettura del testo di Polibio (Historiae 7.6.1-6) sulla topografia della città e sulla ricognizione reale del territorio; procedono soprattutto nel secondo dopoguerra con Luigi Bernabò Brea, prima, e poi con Giovanni Rizza, Guido Lambertini e Salvatore Ciancio, e, anche se in modo discontinuo ma costante, fino ad oggi.