Gian Lorenzo Bernini…..e Francesco Borromini
A spasso per Roma (ma solo virtualmente), sabato 9 marzo, accompagnati dalla professionale competenza e dal garbo espositivo del prof. Paolo Giansiracusa, docente di Storia dell’Arte presso l’Accademia delle Belle Arti di Catania, nonché presidente della sezione dell’Archeoclub di Siracusa e da sempre “amico degli amici di Lentini”.
Se la Roma classica stupisce per la sua unicità, la Roma barocca, quella di Bernini e Borromini, non può che “destar meraviglia”, così come affermò a proposito dell’arte seicentesca Gianbattista Marino, teorico e caposcuola di quella corrente artistica.
Bernini e Borromini, nella Roma del Seicento, là dove dominavano i Borromini, i Pamphili, i Borghese e, ancora, i Chigi e i Farnese, si incontrano e si scontrano.
Diversissimi nell’aspetto fisico, nel temperamento, nel sentimento religioso, nella concezione dell’arte e nel rapporto con committenti e maestranze, hanno – in una dialettica di contrapposizione, ma di fusione e compenetrazione, e quasi di sintonia - lasciato nella “città eterna” un’impronta indelebile.
La Chiesa della Controriforma trova in questi due artisti gli strumenti migliori per celebrare se stessa.
G.L. Bernini nasce a Napoli nel 1598 da una popolana napoletana, Angelica Galante, e da Pietro Bernini, pittore e scultore esso stesso, originario della Toscana. Ha solo sei anni quando con la famiglia si trasferisce a Roma, dove vivrà e lavorerà quasi ininterrottamente fino alla morte, avvenuta nel 1680.
Ebbe la sua prima educazione artistica sotto la guida del padre Pietro, ancora legato al manierismo cinquecentesco, ma avverte subito gli orientamenti che in quegli anni a Roma si registravano, come la pittura naturalistica di Caravaggio, il classicismo di Annibale Carracci, traghettatore dell’arte pittorica dal manierismo cinquecentesco a forme più originali, e le prime avvisaglie del barocco in Rubens, che proprio a Roma in quel tempo lavorava. Sin dalle sue prime opere, comunque, G. L. Bernini esprime talento e genialità, raggiungendo successivamente le punte più alte dell’arte barocca.
Il David, Plutone e Proserpina, Apollo e Dafne, Enea e Anchise, gruppi scultorei realizzati su richiesta del cardinale Scipione Borghese, e ancora oggi ospitati nella Galleria Borghese, sono già un vero prodigio tecnico, e per la leggerezza delle figure, colte in corsa o in movimento, libere nello spazio, e per l’abilità della lavorazione del marmo, che diventa ora vegetazione, ora tessuto, ora carne viva. Bernini dimostra così di non essere affascinato dalla realtà sconvolgente delle cose, come Caravaggio, ma dalla loro mutevole e fuggevole apparenza, in uno spazio aperto e dinamico, riuscendo ad infondere nella materia mobilità e luminosità.
A chiamarlo, per grandi progetti, sarà papa Urbano VIII Barberini, pontefice ambizioso, amante dell’arte e grande ammiratore del Bernini, ritenuto artista ideale per realizzare le aspirazioni di grandezza della Chiesa post-tridentina, potente e trionfante.
Inizia così a lavorare nella “fabbrica di San Pietro”, impegno che lo occuperà per più di quarant’anni.
Se al Maderno spettò l’architettura della facciata esterna della Basilica, già allora portata a termine, a Bernini fu affidata l’organizzazione della struttura interna. Comincia in tal modo un lavoro immane: il riassetto dei grandi piloni della cupola michelangiolesca, le nicchie, le logge, i marmi policroni delle navate, i monumenti funebri di Urbano VIII e Alessandro VII, la Cappella del Sacramento, l’abside con la maestosa Cattedra di San Pietro, sovrastata da stupefacenti raggi dorati, simbolo dello Spirito Santo.
Ma è il baldacchino bronzeo che stupisce per la sua magnificenza. Alto poco meno di 29 metri, si poggia su quattro colonne tortili di m. 11, che, oltre al significato simbolico della vite, danno il senso immediato del movimento, tanto caro al Bernini, fosse pittura, marmo o bronzo.
Se il travertino del Colosseo diventò pavimento di case patrizie romane e materia prima di fontane urbane, il bronzo del Pantheon, smantellato, si trasformò in colonne e volte, con il placet dei Barberini. Mons Carlo Castelli, ambasciatore del duca di Mantova, non a caso, o forse Giulio Mancini, medico del papa Urbano VIII, a ragione coniò il celebre epigramma: “Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini”.
Il pontificato di Innocenzo X Pamphili sembrò fermare la fortuna e il successo di Bernini e registrare i consensi per il rivale di sempre, F.Borromini, che da semplice scalpellino alle dipendenze di Carlo Maderno, prima, e dello stesso Bernini, dopo, vede crescere proprio in quegli anni la sua fortuna artistica. Si occupa del rifacimento della Basilica di San Giovanni in Laterano, realizza San Carlo alle Quattro Fontane, Sant’Ivo alla Sapienza e la Chiesa di Sant’Agnese in Agone in Piazza Navona. Ma con papa Alessandro VII Chigi Bernini riprende a lavorare alla grande: il Colonnato di Piazza San Pietro (284 colonne e 88 pilastri), abbraccio della Chiesa al mondo, Palazzo di Montecitorio, la Fontana del Tritone, la Chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, l’Estasi di Santa Teresa d’Avila, nella chiesa di Santa Maria della Vittoria (Cappella Cornaro), ma soprattutto l’allegorica Fontana dei Quattro Fiumi a Piazza Navona, le cui statue sembrerebbero esprimere segni di sdegno o rifiuto verso la facciata borrominiana di Sant’Agnese. Le date dei rispettivi lavori, però, smentiscono la leggenda, e il confronto tra i due resta solo artistico e non umano.
G. L. Bernini muore nel novembre del 1680, a 82 anni. Aveva servito quattro papi: Paolo V Borghese, Urbano VIII Barberini, Innocenzo X Pamphili, Alessandro VII Chigi. E’ ricco, onorato e riverito. Accompagnato da gran folla di popolo sarà sepolto in Santa Maria Maggiore.
Francesco Borromini era già morto nel 1667, suicida. Trasandato e malinconico, sfuggendo gli uomini e in compagnia dei suoi pensieri, viveva in un piccola casa, con poco e povero mobilio, dalle parti di Via Giulia, nei pressi della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, dove verrà sepolto accanto alla tomba di Carlo Maderno.
Bernini fu architetto, scultore, pittore, decoratore, scenografo e altro; Borromini fu solo architetto.
Bernini, potente, ricco, esuberante, dall’arte vistosa e imponente; Borromini, taciturno, introverso, suscettibile, dalla personalità tormentata e ombrosa, fu autore di un’architettura più sobria e rigorosa.
Se le opere di Bernini esprimono tutte una straordinaria inventiva e una capacità unica nell’infondere alla materia dinamicità e luminosità, le opere del Borromini raccontano la sua sofferta spiritualità e la forte intima tensione ideale verso l’alto.
Entrambi seppero dar vita e forma sensibile alla Roma papale del Seicento. Dalla loro arte a volte antitetica, diversa, anche conflittuale, ma certamente singolare e complementare, è nata la grande Roma barocca.