Alla scoperta di una Sicilia minore: Forza d’Agrò e Savoca.
I soci dell’Archeoclub di Lentini, sempre numerosi, accompagnati dal presidente, prof. Pippo Cosentino, e dalla past-president, prof.ssa Maria Arisco, hanno visitato, domenica 17 aprile, Forza d’Agrò e Savoca, due pittoreschi borghi, in provincia di Messina, che mantengono intatto il fascino suggestivo della civiltà contadina, semplice e genuina, dei tempi passati.
Eppure, pur nella loro identità rurale, conservano i segni, attraverso il loro patrimonio artistico, di un passato storicamente e culturalmente interessante.
Forza d’Agrò, che viene per la prima volta menzionata in un documento del 1117 come Vicum Agrillae, deve il proprio toponimo alla ripresa economica, amministrativa, urbanistica, registrata, dopo anni bui, nel secolo XIV, quando, il primitivo casale, probabilmente già abbandonato, viene incastellato, cinto da mura e trasformato in borgo. Al centro di un comprensorio dove hanno lasciato la loro impronta Greci e Romani, Bizantini e Arabi, Normanni e Svevi, può vantare pertanto un passato che non fu anonimo.
Savoca, che deve il suo nome all’abbondanza di una ricca vegetazione a sambuchi, è arroccata su un colle e nasce probabilmente nel XII secolo, allorquando i Normanni, impossessatisi del territorio, unificarono i casali sparsi nella zona, crearono un centro urbano e vi costruirono una fortezza con funzioni difensive.
A periodi di crisi si succedono momenti di ripresa: il borgo ora si spopola (anarchia feudale e politica prima, calamità naturali dopo), ora rinasce, e certamente un ruolo importante lo ebbe la presenza di ordini religiosi, che eressero chiese e conventi e ne vivacizzarono la vita interna.
Ma a metà strada tra Forza d’Agrò e Savoca, a Casalvecchio, in aperta campagna, improvvisamente appare l’Abbazia dei Santi Pietro e Paolo, un capolavoro dell’architettura religiosa normanna, il monumento più interessante di tutta la Val d’Agrò.
La costruzione dell’edificio, come risulta dal diploma di donazione redatto in lingua greca, risale al 1117, quando il re normanno Ruggero II, di passaggio da quelle parti, acconsentì alla richiesta dei monaci basiliani, che lì vivevano, di realizzare in quei luoghi un’abbazia. L’epigrafe, sempre in greco, incisa sul portale d’ingresso, ci riporta ad una ricostruzione parziale del tempio e fissa l’ultimazione dei lavori al 1171.
Nei secoli successivi, la chiesa subì varie trasformazioni, che non intaccarono il primitivo impianto, riuscendo così a conservare, fortunatamente, la bellezza, elegante e maestosa, delle sue origini.
L’esterno è un gioco di colori, prodotti dall’uso di mattoni di vario genere – dalla pietra arenaria alla pietra lavica – e l’effetto pittorico è suggestivo.
L’interno, a tre navate, presenta la struttura propria delle chiese bizantine, mentre le due cupole, che si elevano lungo l’asse della navata centrale, sono di scuola araba.
In Sicilia, soprattutto nel periodo normanno, maestranze greche e maestranze arabe (ancorchè ebree), lavoravano le une accanto alle altre e i risultati si rivelarono sorprendenti e originali.
I monaci basiliani lasciano l’Abbazia - raccontano le cronache - nel 1794. Ma la loro presenza aveva svolto, fin da quando erano giunti in Sicilia dall’Oriente, un ruolo importante nello sviluppo culturale, artistico ed economico della terra che li ospitò.
Ma cosa li aveva spinti a stabilirsi nella nostra isola?
Nell’VIII secolo, quando la lotta iconoclasta, intentata dagli imperatori di Bisanzio, diventata vera e propria persecuzione, mise in fuga i monaci basiliani dalla loro terra, la Sicilia (ma poi anche la Calabria, la Lucania, le Puglie) fu lo sbocco naturale verso l’occidente del monachesimo orientale. Là dove si stanziarono, i monaci scavano nella roccia cenobi e ipogei, veri e propri insediamenti rupestri, la loro prima forma di rifugio, già sperimentata in Cappadocia. Costruiscono poi monasteri e chiese, in quello stile bizantino a loro familiare. Sostengono l’istruzione, promuovono la cultura, incrementano l’agricoltura, migliorano, con le loro iniziative, la qualità della vita della comunità di cui fanno parte. Svolsero, quindi, un ruolo particolarmente qualificato, che non poteva non lasciare il segno.
La Sicilia non finisce mai di stupire.
Entrando nelle sue pieghe si scopre una ricchezza artistica, poco nota, che sorprende, soprattutto perché fuori dai circuiti turistici tradizionali, e che richiede una maggiore visibilità.
La mia regione (e certamente sono di parte) ha una natura varia e bella; un clima mite e piacevole; un patrimonio archeologico eccezionale; un’architettura - da quella araba a quella normanna, dai castelli svevi al barocco di Val di Noto - sorprendente; ha oltre mille chilometri di coste e fondali marini molto ricchi; è dominata dall’imponenza dell’ Etna, forse il vulcano più monitorato al mondo, che sbuffa spesso ma non impaurisce.
Sicuramente merita un’attenzione maggiore. Da parte di chi non la conosce e la ignora; di chi l’amministra e la trascura; di chi la visita distrattamente.
“Senza vedere la Sicilia non ci si può fare un’idea dell’Italia. E’ in Sicilia che si trova la chiave di tutto”. Lo scrisse Goethe secoli fa, ma vale anche oggi.