Un saggio di antropologia del paesaggio sul rapporto archeologico fra il "sacro" e la "civiltà rupestre" nel territorio siciliano degli Iblei
Venerdì 11 ottobre 2024 – con una discreta puntualità rispetto alle indicazioni in locandina delle 17:30 (c’è un malizioso sorriso rispetto ai ritardi cui noi tutti siamo abituati per gli “eventi culturali”) – Filadelfio Inserra e Davide Miccione - rispettivamente il presidente della sezione lentinese di Archeoclub ed organizzatore dell’iniziativa, e il direttore di collana presso la casa editrice - hanno presentato presso il Centro Multifunzionale della Biblioteca di Lentini il saggio di Enrico Sesto Sonno di pietra. Stratigrafie del sacro in Sicilia, discusso grazie alle sapienti domande di Rosa Tinnirello (iconologa di formazione, social media manager per lavoro) all’autore.
Alla presentazione affettuosa ed attenta di Inserra e dopo le parole di elogio illuminante di Miccione (che è, come l’autore del volume ed il presidente di Archeoclub, anch’egli insegnante, ed ha alle spalle saggi di filosofia dedicati a Sgalambro ed alla consulenza filosofica, oltre alla direzione di riviste e collane editoriali cartacee e in Rete) è seguito infatti un lungo variegato percorso di scavo guidato dalle questioni sollevate da Tinnirello pronta a sollecitare le risposte, dense di suggestioni, di Sesto.
Il pubblico che ha riempito la sala ha così esplorato, quasi preso per mano dall’introduzione della studiosa, non solo il rapporto personale di amicizia con l’autore, ma il comune fondamento concettuale di entrambi e del saggio nel segno del pensiero di Aby Warburg (il geniale fondatore dell’iconologia attraverso i suoi studi sulla continuità del paganesimo nella ritrattistica del Rinascimento italiano) e del “pensare a piedi” proposto dal sociologo Franco Cassano.
Il dialogo, ampio e disteso e per necessità labirintico di Rosa Tinnirello ed Enrico Sesto si è dunque snodato tra l’antropologia del paesaggio ibleo (nucleo centrale del saggio); la mitologia greca antica e quella ad essa preesistente in Sicilia e a quel paesaggio rupestre sottostante ed emergente dalle pietre, protagoniste assolute delle pagine; e la dimensione cultuale-culturale della Notte e del Nulla, che permeano anzitutto la sacralità sotterranea della morte nelle sue varie manifestazioni formali dalla preistoria mitica alla contemporaneità autobiografica dell’autore.
Nella serpentina discussione che è sorta tra la studiosa warburghiana e lo storico dell’arte è emersa la diversa stratificazione che parte dal titolo ed arriva alla struttura delle sezioni del volume e infine tocca la questione del metodo antropologico-archeologico utilizzato – ma Enrico Sesto ha detto “evocato” – nella escavazione del lavoro di ragionamento e scrittura. Ne è venuto fuori un saggio denso di suggestioni che hanno incuriosito il pubblico anche per la loro dimensione di cittadinanza, “politica” e non “partitica”, e per la dichiarazione, quanto mai urgente, della necessità di una presa di coscienza del “potere dei luoghi” come dinamica della conoscenza e del rispetto della loro “sacralità” appunto, viva e da rivivificare, come ha sottolineato Rosa Tinnirello.
Che Enrico Sesto abbia organizzato con preveggenza la presentazione del suo saggio per l’11 ottobre non è dato sapere; eppure che la data della festività dei Meditrinalia, la festa del vino dell’antica religione romana in onore di Giove (e di Bacco ovviamente) sia stata fortemente significativa è, per chi padroneggia almeno in parte i culti ed i misteri, innegabile; e per un libro intriso di misticismo ed allusioni alchemiche, il fatto che quel vino fosse fatto bollire e venisse ridotto in volume ed esaltato dunque in contenuto zuccherino e poi mescolato ad aromi è una sorta di evocazione di fornaci, alambicchi e fuochi per purificare, operare e giungere al bianco della luce, al rosso della trasmutazione ed al nero dell’iniziazione compiuta.
I tre strati di cui il saggio si compone – Doppio Passo, Infanzia dei Pupazzi, Idoli e Luoghi – si distendono lungo una dimensione topografica che, pur avendo sempre di mira il paesaggio ibleo che inizia a Lentini e segue i crinali fino ai due mari del Canale di Sicilia e dello Ionio, parte dalla superficie illuminata di Noto, Siracusa, Pantalica, Avola, Palermo (unica tappa “esterna” alla circoscrizione orientale del territorio), Ispica, Palazzolo, Ferla, la Scordia di un “Lucio” velato dalle allusioni, e poi scava nello spazio (auto)biografico della casa e dell’infanzia, fino a giungere ai luoghi della presenza del sacro.
Ecco il titolo, che è già in sé un’offerta di intangibilità contraddittoria e potenzialmente creatrice: il “sonno di pietra” è insieme la morte (di cui tanto si parla fra le pagine) e la dimensione profonda dell’esperienza iniziatica dello sciamano, l’esploratore dello spazio sacro che lo attraversa sulla soglia sempre mobile della luce e dell’ombra. Ecco dunque gli “strati”, ed il metodo archeologico che se ha la sua ascendenza in Aby Warburg ha un suo ulteriore campione “razionale” in Michel Foucault ed un campione “immaginale” in Henry Corbin.
La “stratigrafia” è, allegoricamente, un metodo di indagine antropologica e politica per dire la complessità dei tratti portanti di una civiltà mediterranea ancestrale che ancora giace inesplorata e inattiva nel territorio degli Iblei con i suoi elementi ben in vista e però osservati solo superficialmente: muri a secco, prodotti dell’agricoltura, tecniche e saperi operativi verso le piante, gli animali, lo spazio abitativo. Quella stessa stratificazione verso cui “fare spazio” (alla maniera del “fare anima” di Carl Gustav Jung) è però, simbolicamente, un processo di individuazione attraverso le potenze olimpiche (gli dèi e gli idoli: anche se Enrico Sesto va al contrario dall’occhio agli altri sensi più nascosti) e pre-olimpiche: le pietre dure e scabre giustapposte per forma e gravità nei muri a secco, le rocce friabili e porose dei calanchi di Pantalica, i quartieri simbolici degli specchi d’acqua e degli oggetti di ogni casa si popolano di energie perché sono le tappe di una “comprensione” che è il “capire” dialettale siciliano, il “creare un’apertura” che si ottiene “attraversando lo spazio per mettere assieme le Cose” (questo è l’etimo di “diálektos”, non a caso).
Allora le esplorazioni lungo il passato in superficie mitico della Sicilia ancestrale, con Hermes ed Apollo e Dioniso e Zeus e Poseidone ed Ade e Proserpina e Demetra possono lasciare il passo ad un rito di morte e resurrezione (e come per ogni sciamano, poco importa che sia stato compiuto “in corpo” o “in spirito”) nella nudità della notte campestre sotto le stelle; il vortice iniziatico dei Fedeli d’Amore di cui si ricostruisce (e Sesto vi si era già mosso in un opuscolo di un quarto di secolo fa) la presenza nella Scuola Poetica Siciliana può evolvere in un “racconto visionario” come quelli che Corbin ha descritto e tradotto da Ibn Sīnā o da Shihāb al-Dīn Yaḥyā Sohravardī.
Scavare nelle forme dell’oscurità come un cercare di penetrare il mistero del sacro alla ricerca della “nicchia delle luci” (dal titolo di un trattato di al-Ghazālī che è evocato nel saggio quando si analizzano le edicole votive pagane all’interno delle latomie iblee) è un cavare per costruire, abitare e pensare la vita dei luoghi attraverso la vita del Sé, pare dire l’autore. Rivivificare il mistero indicibile accettando la contraddizione di comunicarlo attraverso il mito e la favola anziché col silenzio attento del culto e del rito è il pegno da pagare ad un epoca in cui tutto cambia forma senza che si sappia intendere il potere trasformativo della morte, la sua “smorfia” e le “smorfiature” che mettono in comunicazione i trapassati con i loro sogni ed i fuochi fatui.
La Grande Madre che Enrico Sesto evoca a più riprese – dall’oscurità del “tribunale del pane”, estensione del gineceo senza aperture all’esterno, fino alla trasformazione di Demetra che accetta la nuova vita infera e luminosa insieme della figlia Persefone – non è solo quella del matriarcato di Bachofen, ma anche la radice di una rivoluzione archeologica dovuta a Marija Birutė Alseikaitė Gimbutas, per la quale l’antichissima civiltà precedente la rivoluzione indoeuropea era articolata secondo regole e saper di pace e equilibrio fra uomini e donne.
Sesto prosegue però diversamente da Gimbutas, e proprio nel culto dei morti in Sicilia vede la traccia di un’energia tellurica dominata dal “NoN dell’Uno [che] è uguale a Nessuno”: seguace di Gorgia che di questo pensiero fu il primo portatore nella razionalità greca antica (e l’ultimo di una serie di sapienti misterici, orfici e sciamanici indoeuropei), l’autore più volte sembra tentato di ribaltare l’assunto e dire l’altrettanto vero “Uno che è uguale a tutto”, come anche il filosofo leontino avrebbe potuto. Ma questo sarebbe stato un’altra pietra su cui costruire un altro sonno e un altro strato da cavare per restare nel sacro che ancora attende pazientemente il risveglio.