L’Archeoclub di Lentini e il Dramma Antico
Giovedì 15 giugno, l’Archeoclub di Lentini ha organizzato, nel salone di Palazzo Beneventano, un incontro con il prof. Alfio Siracusano sul tema: “I sette contro Tebe, Le Fenicie, Le Rane. Il fato, la guerra, lo sberleffo”.
L’occasione era dettata dalle rappresentazioni classiche, ad una delle quali prossimamente assisteremo, che si tengono, come ogni anno, tra maggio e giugno, presso il Teatro Greco di Siracusa.
A presentare il relatore, congiuntamente, la past president, prof.ssa Maria Arisco, e il presidente, prof. Pippo Cosentino, forzatamente “in silenzio” per una fastidiosa raucedine.
Il prof. Alfio Siracusano, docente e scrittore, con un linguaggio accattivante, ha tracciato quel filo diretto che collega le due tragedie Sette contro Tebe di Eschilo e Fenicie di Euripide e la commedia Rane di Aristofane, facenti parte della stagione 2017. Il mito, la storia, la guerra, il fato appaiono collegati ma nello stesso tempo disgiunti dal modo diverso di rapportarsi con essi da parte dei tre autori, uniti nell’arte, ma diversi per formazione e tempi.
Sullo sfondo l’Atene felix di Pericle, prima, e, dopo, quella duramente provata dalla Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), dalla peste (430 a.C.), dalla perdita della leadership in Grecia.
Ha poi esteso il suo discorso, in generale, al teatro classico antico, ai suoi autori e alle loro opere, che oscillano, e questo è il loro fascino, tra storia e leggenda, tra realtà e finzione.
La tragedia classica, ci ha detto il relatore, nasce in Grecia nel V secolo a.C., ricava gli argomenti che rappresenta dal mito, dall’epica e dalla storia, “è…imitazione di un’azione nobile e compiuta…la quale per mezzo della pietà e della paura provoca la purificazione di queste passioni”. E’ mimesi e catarsi. Così Aristotele, proprio nella Poetica, la definisce e ad essa si rifanno Eschilo, Sofocle ed Euripide, autori per antonomasia della tragedia greca.
Tuttavia le 33 tragedie che di loro ci sono pervenute appaiono uguali nel genere, sostengono gli studiosi, ma diverse nei tratti specifici, nelle vicende rappresentate e nei risvolti ad esse connessi, ma soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi.
Eschilo (525-456 a.C.), che ebbe sicuramente predecessori meno noti, fissò le proprietà essenziali della tragedia (il prologo, il secondo attore, il dialogo drammatico, il coro, l’epilogo), attinse gli argomenti dal mito e usò un linguaggio aspro, spesso oscuro.
Rappresenta personaggi inquieti, tormentati da un’angoscia intima, che subiscono la condanna degli dei, inesorabili nel punire la trasgressione, la tracotanza, la ribellione. Alla colpa succede implacabile la pena. Tuttavia l’uomo, vittima di se stesso, può affermare, sempre secondo Eschilo, la propria dignità attraverso la sofferenza e riconquistare un equilibrio interiore (Agamennone, Prometeo, Oreste).
Sofocle (497-406 a.C.), di cui ci sono giunte sette tragedie, sposta l’attenzione dal mito all’individuo-eroe, visto nella sua tragica opposizione al destino (Aiace) o nella sofferta fedeltà al dovere eroico (Elettra, Antigone).
Il suo protagonista ha in sé l’energia morale per fronteggiare una realtà ostile e il male: agisce, subisce, accetta il volere degli dei e così riscatta se stesso.
Euripide (484-406) si sofferma, invece, sulle tribolazioni e i patimenti a cui l’individuo è costretto dall’irrazionalità delle sue passioni o dalle forze sovrumane che influiscono sulla realtà. L’eroe descritto nelle sue tragedie è spesso una persona problematica, fragile, complicata, insicura, non priva di conflitti interiori e non raramente in combutta con il mondo esterno, quasi vittima predestinata di forze oscure. Euripide diventa così, attraverso le vicende dei suoi protagonisti, l’interprete della crisi della società del suo tempo.
Ma di lui ci affascinano soprattutto le dolenti figure femminili (da Andromaca a Fedra, da Ifigenia a Medea), donne dai sentimenti intensi e dalla sensibilità tormentata, che si scontrano, fino a soccombere, con la ragione degli altri e con un destino avverso. Nel loro strazio si nasconde il loro riscatto, nelle loro scelte estreme la loro forza.
E poi Aristofane (445-380 a.C.) e le sue commedie, le uniche del teatro antico. Testimone e interprete della caduta di Atene, racconta, con toni irridenti e con una satira pungente e corrosiva, di situazioni assurde ed esilaranti, che non nascono, però, da freddo distacco o da atteggiamento dissacrante, quanto piuttosto da amara consapevolezza.
La sconfitta politica di Atene, la perdita dei valori del passato, i cattivi insegnamenti dei filosofi sono, per Aristofane, causa ed effetto di una crisi irreversibile.
Il presente è deludente, il passato fonte di nostalgia, e così il suo “conservatorismo”, spesso denunciato, diventa un’attitudine del sentimento, più che una precisa posizione politica.
Dopo di lui Menandro (342-291 a.C.). Ma sono già tempi nuovi. La commedia, a modo suo, intrattiene e non denuncia.
Le opere di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane, e non solo, rivivono puntualmente nel Teatro Greco di Siracusa, il più stupefacente del mondo antico.
Maestoso e imponente, abbiamo spesso ricordato, nella punta estrema del Parco Archeologico della Neapolis, sembra scolpito nella roccia. Realizzato tra il 238 e il 215 a.C., al tempo di Ierone II, è formato, secondo i relativi canoni architettonici, da tre elementi fondamentali: cavea, orchestra e scena, oggi quasi completamente scomparsa. La sua cavea, con i suoi 138 metri di diametro, è tra le più grandi; la sua pendenza la più dolce. Divisa in 9 settori, con 61 ordini di gradini, di cui ne sono pervenuti 46, poteva ospitare 15.000 spettatori. Qui si svolse la prima rappresentazione de “I Persiani” di Eschilo e qui si rappresentavano le commedie di Epicarmo, che a Siracusa era vissuto al tempo di Gelone e Ierone I. Centro nevralgico della città, le sue gradinate accoglievano i cittadini di Siracusa non solo per gli spettacoli, ma anche per assemblee, liberi confronti e decisioni collettive, secondo i costumi e le usanze del tempo.
Quando Siracusa diventa romana, la funzione del teatro venne stravolta. Trasformato in arena, ospitò belve e gladiatori e perse la valenza culturale per la quale era stato concepito.
Rimasto in abbandono per lunghi secoli, Carlo V, nel XVI secolo, “lo riscoprì” per farne un uso improprio: estrarre il materiale edile che serviva per le fortificazioni che stava erigendo a Ortigia. I guasti continuarono. Riattivato l’antico acquedotto di Galermi, sempre nello stesso secolo, nella cavea si insediarono parecchi mulini, che deturparono il sito e arrecarono gravi danni a tutta la struttura del teatro, che tuttavia è riuscito, a dispetto delle cattive intenzioni e azioni di chi lo ha offeso, a conservare buona parte della sua possanza e a mantenerne intatto il fascino e le funzioni.
Gli scavi, volti soprattutto al recupero dell’intero sito, iniziati alla fine del XVIII secolo e proseguiti nel secolo successivo, furono ripresi nel 1921 e completati solo negli anni ’50. E il teatro greco di Siracusa è tornato a risplendere.
Noi a Lentini, da qualche parte, abbiamo probabilmente il nostro teatro greco. Prima o poi lo troveremo. Ci conforta l’idea che il terriccio, che lo copre e lo nasconde, in qualche modo lo protegge dalle intemperie e dai predatori, e potrebbe un giorno restituircelo integro.
La Sicilia e la Grecia – legate dal filo della storia e della cultura di comune matrice – sono la testimonianza, con quanto sono riuscite a conservare e trasmettere del loro passato, di un tempo che fu eccezionale.
Ma i problemi, da una parte e dall’altra, non mancano.
La Grecia di oggi, quella che Tsipras sta tenacemente cercando di risanare, vive momenti di grandi difficoltà economiche, finanziarie e sociali. La corruzione, il malgoverno, la politica poco accorta degli ultimi anni hanno creato le premesse di una crisi di ampio respiro. La disattenzione dell’Europa, inoltre, trasformatasi poi in un rigore eccessivo e insostenibile, ma sicuramente ora più attutita, ha chiuso il cerchio.
Eppure in Grecia, tanti secoli fa, sono nati la poesia e l’arte, il teatro e lo sport, la filosofia e la politica e ad Atene, oggi congestionata dal traffico, coperta dallo smog, provata da una sofferenza diffusa, si sperimentava la prima forma di democrazia.
Pericle, nel V secolo a.C., parlando ai suoi concittadini, a proposito di questo e di quello, poteva ben dire con orgoglio: “Qui ad Atene noi facciamo così”, sapendo di essere nel giusto.
A questa Grecia, oggi in affanno, ma una volta grande, dobbiamo molto.